domenica 20 gennaio 2008

Recensione di Marco NOCE

QUANDO LA MATERIA E’ MISTICA E L’ARTISTA LA CONTEMPLA

Un umile didascalia

In mostra al Centro Kairos dieci anni di ricerche su una tecnica antica, tra informale e calligrafia.
La lastra metallica viene trattata con l’acido, la carta vetrata, le paste, il nastro adesivo, il trapano, il bulino.
Un incisore atipico, Atzeni, devoto cultore di una tecnica antica e al tempo stesso instancabile sperimentatore delle più svariate possibilità che questa gli offre, “ Credo nella tecnica”, dichiara il maestro a chi gli chiede lumi, ma nessuno si aspetti fredde elaborazioni fini a se stesse: Atzeni è infatti un mistico, e non a caso troviamo esposte tante Contemplazioni mistiche, in questa mostra nella quale sono raccolte opere realizzate nel corso dell’ultimo decennio.
Che cosa può essere contemplato con lo sguardo del mistico? Tutto ciò che è metafisico, verrebbe naturale rispondere. Invece la contemplazione di Atzeni riguarda la materia. Una materia esplorata nelle sue trasformazioni chimiche, nelle reazioni in parte prevedibili in parte no che si verificano nell’ambito del processo creativo. Non ci si illuda, infatti, che la mistica del cagliaritano stia tutta in quei profili di chiesa che si intravedono controluce, stampati a secco sulla carta, né in quelle forme che proprio nelle Contemplazioni, possono ricordare dei copricapi religiosi. E’ immergendole nella continua metamorfosi della materia minerale e metallica che Atzeni fa delle proprie incisioni delle visioni mistiche che vengono proposte anche allo spettatore.
L’incisione è una tecnica nata sostanzialmente allo scopo di diffondere copie di lavori preesistenti. Gianni Atzeni, però, dopo essersi impadronito dei procedimenti tradizionali, ne ha inventati altri assolutamente nuovi, dei quali parla in termini sibillini. Occorre allora considerare attentamente la peculiare vicenda della nascita di una sua incisione. L’artista non lavora direttamente sull’opera finale, ma su una lastra metallica, sulla quale opera con tecniche tradizionali, praticandovi dei solchi col bulino o, col trapano, facendo dei passaggi di colore o di inchiostro, o trattandola secondo procedimento chimico-alchemico dell’acquaforte, ma anche con tecniche innovative, utilizzando nastro adesivo, la cera, la carta vetrata. Il segno è sempre leggero, sia quando tocca il massimo dell’informalità e diventa venatura, sia quando, nascendo dal trapano, come se fosse nato dal pennello del calligrafo orientale, diventa quasi un ideogramma. Credere nella tecnica, per Atzeni, significa allora credere nella materia, ritenerla responsabile al cinquanta per cento del risultato finale. Un pò come fa Giovanni Giudici, che sostiene che una poesia è sempre figlia di due genitori: il poeta e la lingua.
Nel caso delle incisioni, però quella che viene esposta è solo la stampa di un’opera sempre fluttuante nella virtualità.
Una sorta di fotografia scattata a qualcosa che si trasforma, uno dei tanti fotogrammi possibili ai qualcosa in divenire. L’acido corrode la lastra e la carta su cui viene pressata racconta solo uno dei momenti di questa corrosione. Proteggere alcune zone della lastra con del nastro e poi sollevarlo per fare in modo che anche quelle subiscano l’azione dell’acido significa tradurre il tempo (quello in cui il metallo è esposto alla corrosione) in intensità di colore. L’opera finale, quella stampata ed esposta, allora, è figlia di tanti genitori: l’artista, l’acido, il metallo, il bulino, il trapano, il colore e infine la carta. Un sistema complesso, intricato, stratificato. Quasi la miniatura e la radiografia di un cosmo in cui le trasformazioni non cessano mai. C’è qualcosa di esoterico e segreto, una spinta mistica nell’artista che nel suo laboratorio (o laboratorio di alchimista) si immerge in questo divenire per restituircene un’istantanea, un’impronta. O più d’una: tante delle stampe esposte sono state ricavate da un’unica lastra poi divisa in più parti lavorate separatamente. Né vengono fuori opere scabrose e affascinanti, aggraziate e disumane nella loro asimmetrica regolarità.
Come tutti quelli che arrivano a certe altezze nella contemplazione, al ritorno Atzeni non conserva granché di preciso da raccontare. Dante, alla fine del Paradiso, dice di ricordare piuttosto confusamente la sua visione di Dio, perché questa sovrasta le capacità dell’uomo. Per questo Atzeni si limita a credere nella tecnica: perché di ciò che ha visto avvenire nelle fibre del cosmo parlano le sue incisioni, sempre che chi le guarda abbia la sensibilità, l’agio, la fortuna di riuscire a mettersi in ascolto. Non tutti, diciamoci la verità, sanno riconoscere il cosmo in un granello di sabbia, come Blake. Non tutti, come Eliot, riescono a scoprire il punto fisso del mondo che ruota, quello in cui la danza e la stasi sono la stessa cosa. Con i suoi lavori assolutamente non figurativi e informali, racconti di molecole frammentate e di atomi scissi, Atzeni ci accompagna in territori altrimenti inaccessibili: quelli dove si svolgono le vicende del metallo, dove il tempo diventa colore, il solco segno.
Recensione di Marco NOCE

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